VITA, MORTE E MIRACOLI, PENSANDO A CECHOV
a cura di: Andrea Porcheddu
Link
All’aprirsi del sipario – come all’inizio di ogni racconto di Anton Cechov – ci affacciamo su un mondo, fatto di amori, desideri, sogni, dolori; e poi lo abbandoniamo, al voltar della pagina, o allo spegnersi delle luci di scena. Vita, morte miracoli è un bel testo di Lorenzo Gioielli, che si sta rivelando sempre più (oltre che attore e sceneggiatore) un drammaturgo raffinatissimo, messo in scena con partecipazione emotiva da Riccardo Scarafoni.
Non ci sono inquiete ambizioni né provocazioni pseudoartistiche, in questo spettacolo: semplicemente si va in scena, con bravi attori, a raccontare una storia. Che è una storia robusta e solo apparentemente semplice: attorno al capezzale di un uomo, colpito da embolo, si trovano ad assisterlo il compagno, la sorella di questi e il di lei marito.
Scena iperrealistica: luci da ospedale, un paio di letti, qualche poltroncina, una finestra bastano per raccontare quei quattro personaggi, con le loro manie, le fobie, gli amori, i segreti. Proprio attorno a un non detto, un segreto, si dipana la vicenda.
Lei è andata a letto con il compagno del fratello: una sola volta, si intuisce, ma tanto basta per parlare d’amore. Il marito non dovrebbe sapere, ma sa.
Sono sottili e profondissimi legami quelli che tengono i quattro personaggi stretti tra loro, quasi abbracciati, bisognosi d’affetto. Si prendono in giro, si provocano, giocano con le parole a sostenere l’insostenibile prospettiva della morte. La conversazione è sospesa sapientemente, tra ironia e aspre provocazioni, bonarie prese in giro e sentite confessioni. I tre, aspettando, si confessano, si raccontano. Parlano di sesso, di omosessualità e bisessualità, di vita di coppia, di libertà e rassegnazione. Schermaglie verbali divertentissime, con passaggi di empatica tenerezza.
Poi accade – o sembra accadere – l’imprevedibile. A turno, ciascuno dei tre personaggi rimane solo nella stanza e inizia a parlare con il malato. Forse sono sogni, forse sono flussi di coscienza che si mutano in improbabili dialoghi, ma lui – il degente, colui che potrebbe morire – torna dal suo sonno profondo e rompe il silenzio. Si scoprono, allora, quei segreti, si scoprono debolezze e amarezze, aspirazioni e sogni di ciascuno. Alla fine, sarà il compagno – omosessuale, laico, agnostico – a parlare per l’ultima volta con il degente e a confrontarsi con la prospettiva della morte. Evocano, ricordano, semplicemente, la loro vita – i viaggi fatti, i tanti piccoli litigi, la convivenza – con una dolcezza infinita.
Cechov, si diceva: che torna, in particolare, proprio quando il malato racconta di sé, e del suo lavoro. Scopriamo che è (stato) uno scrittore, e si paragona a una “antenna” capace di intercettare i tanti volti, i modi, le storie del mondo che lo circonda. Raccontare l’umanità per quella che è: ci riusciva il genio di Anton Pavlov. Senza far troppi paragoni, che sarebbero eccessivi, merita però dire che questo Vita, morte e miracoli fa pensare a certi atti unici di Cechov. Qui, forse, la periferia di Roma, là la steppa russa: ma l’umanità non è poi così cambiata. Con felice intuizione, infatti, Gioielli riesce a dare spessore, profondità, completezza ai personaggi: di cui non sappiamo nulla, ma scopriamo tutto. Una buona commedia, insomma, che fa buon teatro. E sono bravi gli attori a tenere il ritmo, la verve, la sottile ambiguità del testo. Connotano bene, tra minimalismo e qualche piccola enfasi, i propri personaggi. Con il regista Riccardo Scarafoni (che in scena è il gay) sono Veruska Rossi, brava nel tratteggiare l’ombrosità gentile della donna; il buon marito di Fabrizio Sabatucci e il malato che ha il corpo possente e la bella faccia di Francesco Venditti.
Tra gli applausi, una lacrimuccia spunta, nel finale commovente per la sua allegra, umanissima, vitalità.