Agenzia radicale

Agenzia radicale

La Fine della fiera. Storia di quattro anime perdute.

A volte ci troviamo a vivere esistenze indossandole come abiti di abitudine forzata. Non sono le uniche vesti a starci meglio, forse ve ne sono di migliori. È probabile però che quelle siano le uniche possibili in quel momento. Temporaneo. Forse. Per sempre.
Sulle scena appaiono quattro individui. Ciascuno ha la sua identità apparente e poi quella interiore. Unica. Multipla. Schizofrenica. Dolorosa.
Tre uomini e una donna. Occupano con i corpi il proprio ritaglio di palco. Non l’abbandoneranno. Singolarmente tengono a bada i loro movimenti, di volta in volta ritornando al proprio sgabello cubico. Legno. Niente colore. Nulla. Solo legno. Tutti ne possiedono uno. Quelle forme geometriche sono elementi scenografici e al contempo metafore di vite. Anime. Certe persone possono muoversi soltanto intorno a percorsi inevitabili. Così lo scorrere degli anni diverrà un continuo “sbattersi” da un lato all’altro di quel cubo. Cambia il modo. C’ è chi si arrabbia, chi finge, chi piange. Ma quegli stessi individui, quel cubo/sgabello, non riescono ad abbandonarlo. Lo stringono, lo prendono a calci. Ci piangono sopra. E questo rimane lì insieme agli esseri che lo hanno scelto per adagiarsi. La Fine delle Fiera narra quattro storie diverse ma uguali. Persone fragili. Intrappolate da loro stessi. Vittime del mondo.La regia di Riccardo Scarafoni è punteruolo nella psicologia dei personaggi. Scava gli attori affinché da quel lavoro, logorante e intimo, emerga la loro verità fondendosi con la sofferenza di chi parlano. Noi, spettatori, rimaniamo intrappolati in quei squarci di esistere che ci stanno percuotendo.C’è comicità. Diversa. Ogni battuta ha dentro il ripensamento. Ogni battuta ha già il germe di qualcosa che col “ridere” non centra poi così tanto. È già tristezza premeditata che non può farsi scorgere. Anzi evita di farlo. Rimarrebbe incompresa.Allora il sorriso diventa morte. Scelta. Lo dicono i fatti. Costretta. Non si poteva fare altrimenti. Quegli abiti indossati. Mai voluti. Solo così smettono di dare fastidio. Quel cubo. Vita. Solo così può sparire. Una volta per tutte.

di ANNA CONCETTA CONSARINO
domenica 30 maggio 2010