Vita, Morte e Miracoli al Teatro della Cometa è la semplicità delle cose fatte bene.
A cura di: Gabriele Di Donfrancesco
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Ci troviamo in una stanza d’ospedale ben illuminata, per niente opprimente. Se non fosse per il ragazzo in coma sul letto, l’atmosfera familiare avrebbe un che di rincuorante. I dialoghi vibrano di questo calore umano che crea connessioni nella semantica dei silenzi. Troviamo Ilaria, moglie e sorella; materna e pacata. È una donna sicura nella comprensione delle emozioni degli altri, ma debole quando la sua empatia si rivolge a se stessa. Suo marito, Dario, è un uomo buono dai pensieri ortodossi e dalla logica diretta: è o non è. L’unico grigio della sua vita è Ilaria, ma serba questa conoscenza come un segreto. Poi c’è Marco, il fratello di Ilaria; costantemente immerso nel suo sarcasmo, è lì che veglia sul giovane compagno. Attende qualcosa che sa che non potrà mai avere: un risveglio che andrebbe contro ogni sua fede nei fatti del mondo. Il ragazzo si chiama Emanuele: quella persona fuori dagli schemi che non risponde allo stereotipo, che non chiede giustificazioni e spezza la comprensione della vita di chi gli sta intorno. È un simbolo fatto personaggio. La sua anima incarna una libera forma di rapporti interpersonali, giustamente riassunta come Amore al suo massimo livello di empatia. È quel lui-lei, lei-lei, lui-lui che demolisce il limite tradizionale e porta la complessità delle relazioni umane ad un nuovo livello. È imprevedibile come il tempo presente, slegato da ogni logica; spaventoso per chi vede in lui la fine della grazia degli antichi valori, ma sconvolgente per chi ne capisce il suo ruolo di estensione degli stessi. È quell’Amore, insomma, che rifiuta di farsi demonizzare e non si lascia abbruttire dall’esasperata pubblicizzazione della sua appartenenza settoriale ad un lato o ad un altro, ma getta la maschera e diventa per tutti una scelta umana. Emanuele non potrebbe parlare, ma ciascuno avrà modo di stare con lui un’ultima volta.
Lo spazio è fisso: non lasciamo mai la stanza e la semplicità dell’apparato concentra ogni attenzione sul potere del dialogo e sulla gestione delle pause. Ne guadagnano gli attori, che possono dedicarsi, con i propri tempi, alla generazione di personaggi profondamente credibili, espressi nella loro complessità come figure complete e coerenti a se stesse. Si ha l’impressione di conoscerli fin dal primo istante. Non si verificano alti e bassi e la finzione gode di una spontaneità che non spezza mai la fluidità naturale della scena. Veruska Rossi, la splendida Ilaria; Fabrizio Sabatucci, il buon Dario; Riccardo Scarafoni, un Marco spezzato, e Francesco Venditti, l’enigmatico Emanuele: la loro voce si fonde con le parole e il significato penetra nei corpi. Come pellegrini nel cammino della vita, gli attori e le loro creature partecipano ad un viaggio che cambia la personalità e cementa l’intero spettacolo nello spirito del singolo. Non si cerca la risata facile e non si vuole giocare alla tragedia, tanto quanto non si fa la commedia. Vita, Morte e Miracoli è un momento di dolore che nella prospettiva della vita si allevia per umana natura. Così non si scade nel pianto e il sollievo comico non abbandona mai la realtà della stanza d’ospedale. Risalta il gusto delle cose fatte bene.